E' giusto pagare la benzina così cara?

C’è qualche esagerazione nelle grida di dolore di questi giorni per il prezzo del petrolio alle stelle, e c’è al tempo stesso parecchia sottovalutazione. Chi si straccia le vesti per i cittadini sempre più tartassati dal caro benzina, sembra dimenticare che in altri momenti più o meno recenti della nostra storia un litro di super, o di benzina verde dal 2000 in avanti, costava in termini reali molto di più, fino ad un euro e mezzo in prezzi attuali. Così era, in particolare, verso la fine degli anni ‘70, quando oltretutto gli italiani erano più poveri e dunque la spesa per il carburante pesava di più sul loro reddito. Ciò non significa, naturalmente, che le preoccupazioni per l’impennata del prezzo di greggio e derivati siano infondate: sono invece giustificatissime ma andrebbero inquadrate in analisi e proposte più di respiro, che considerino il problema energetico nel suo complesso. Che partano, per esempio, dalla consapevolezza, giustamente invocata ieri su queste pagine da Pietro Greco, che il mondo è chiamato ad una transizione energetica epocale, e che in tale cammino, finora incerto e lentissimo, il “vecchio” è rappresentato tanto dal petrolio e dal carbone come dalla fissione nucleare, la cui intrinseca insostenibilità - in termini ambientali e di sicurezza - è stata una volta di più ribadita dal drammatico incidente alla centrale nucleare giapponese di Mihama.
Dove sta allora il “nuovo”? Prima di proporre qualche risposta va sottolineato che l’odierna spirale all’insù dei prezzi petroliferi non è che la punta di un ben più ingombrante iceberg, della strutturale instabilità di un sistema energetico, e in generale economico, che si regge per buona parte sui combustibili fossili e soprattutto sul greggio. Oggi questa nuova ondata di inflazione petrolifera, frutto di circostanze essenzialmente geopolitiche, rischia di neutralizzare in Europa e negli stessi Stati Uniti i primi timidi accenni di ripresa economica, ma il problema non nasce certo con la crisi internazionale degli ultimi due o tre anni. Ci sono cinque ottime ragioni, vecchie di diversi decenni, per le quali i Paesi industrializzati avrebbero dovuto da tempo - e dovrebbero oggi a maggior ragione - puntare a ridurre sensibilmente i propri consumi di petrolio e a promuovere il risparmio energetico. La prima è politica: una risorsa come il petrolio concentrata in così poche mani - i Paesi dell’Opec, le multinazionali del petrolio - è inevitabilmente destinata a venire usata da quanti la controllano come un’arma di pressione o peggio di ricatto; accadde nel 1973 dopo la guerra del Kippur, succede ora in una fase quanto mai critica dei rapporti tra occidente e mondo arabo. La seconda è economica: con le sole vistose eccezioni degli Stati Uniti e della Russia, per il resto i Paesi occidentali importano gran parte del petrolio che consumano, e perciò avrebbero tutto l'interesse ad alleggerire questa che rappresenta la principale voce passiva della loro bilancia commerciale; d’altra parte, la tendenza all’aumento del prezzo del petrolio è destinata a consolidarsi, per la crescita della domanda legata allo sviluppo accelerato di grandi Paesi emergenti come Cina e India e per l’assottigliamento delle riserve.

La terza ragione è ambientale: a parte il nucleare, il cui declino sembra inarrestabile anche per la sua intrinseca insostenibilità in termini ambientali e di sicurezza, i combustibili fossili sono la fonte d'energia più inquinante, e la causa maggiore dei rischi di un progressivo riscaldamento del clima. La quarta è una ragione tecnologica: scommettere sulle alternative al petrolio richiede di promuovere la ricerca, l’innovazione; un’economia meno “petrolio-dipendente” è un’economia più moderna. La quinta ragione è di equità internazionale: è certo auspicabile che il Sud del mondo raggiunga rapidamente livelli di sviluppo paragonabili ai nostri, ma se ciò avvenisse ai medesimi costi energetici sostenuti dal mondo ricco, sulla base della stessa “monocultura” petrolifera, l’umanità andrebbe incontro a un collasso climatico e ambientale; insomma, come dice il sociologo tedesco Wolfgang Sachs, il sistema energetico dominante è «incapace di giustizia». Allora bisognava, bisognerebbe, rispondere a una semplice domanda e agire di conseguenza: come si può riformare il modello energetico riducendone la dipendenza dal greggio? Le strade sono tutt’altro che futuribili: occorre migliorare l’efficienza energetica nei trasporti, nell’industria, nel settore residenziale, cioè in parole povere ridurre il contenuto di energia per unità di Pil prodotto che diventerà sempre di più una misura fondamentale di competitività. E poi vanno incentivate le energie alternative al petrolio, al carbone, al nucleare: che sono il metano, la più pulita e diffusa tra le energie fossili, e soprattutto l’eolico e il solare. Insomma, servirebbe una politica energetica, e qui vengo al caso italiano. L’Italia non ha una politica energetica, non ce l’ha da anni: viviamo alla giornata tra black-out più o meno evitabili, progetti a pioggia di nuove centrali partoriti fuori da ogni obiettivo generale in termini di priorità tecnologiche e fabbisogni territoriali, ipotesi paradossali come un inquietante ritorno al carbone, la tendenza a privilegiare ulteriormente il trasporto su strada che tra tutte le forme di mobilità è quella che consuma più energia e produce più inquinamento. Così, nulla è stato fatto per accrescere l’efficienza energetica del Paese, che in dieci anni ha perso pesantemente terreno da molti Paesi europei: elettrodomestici e lampadine a basso consumo, caldaie a condensazione, scaldabagni solari, in Italia sono tuttora una rarità; nulla per riequilibrare il sistema dei trasporti a favore della ferrovia e del cabotaggio, anzi con la Legge obiettivo si è imboccata la via opposta (oggi i quattro quinti dei passeggeri e delle merci viaggiano su gomma, siamo la “maglia nera” d’Europa); nulla, ancora, per sviluppare le fonti energetiche pulite: nell'energia eolica siamo dietro anni luce alla Germania, all’Austria, alla Spagna, nel solare siamo quasi all’anno zero; e infine nulla per potenziare la ricerca sull’innovazione energetica. Se l’Europa si è mossa poco per ridurre i consumi di petrolio e carbone, l’Italia è rimasta praticamente ferma: incapace di onorare gli obiettivi sottoscritti di riduzione delle emissioni che danneggiano il clima, e che in buona misura provengono dalla combustione del greggio (dovremmo diminuirle del 6,5% entro il 2012 rispetto al 1990, fino adesso sono cresciute di oltre il 5% mentre in Germania, in Francia e nel Regno Unito sono scese di molti punti), incapace persino di mettere a frutto gli incentivi per lo sviluppo delle energie rinnovabili via via introdotti. Questo differenziale d’innovazione energetica con il resto dell’Europa rischia oggi di tradursi in un differenziale nei tassi di crescita del Pil e d’inflazione, d’inchiodarci ad altri anni di stagnazione e ad un progressivo declino.
Mai come per l’energia, esigenze ambientali e di sviluppo e competitività camminano insieme, eppure c’è ancora qualcuno che incolpa gli ambientalisti “nemici del petrolio” per i black-out e propone come unica ricetta ai problemi attuali un aumento ulteriore della nostra dipendenza dal greggio. Come dicevano gli antichi cinesi, quando il saggio indica la luna lo sciocco guarda il dito.
Presidente nazionale di Legambiente